Indaco

Tra le sostanze coloranti naturali quelle blu sono state da sempre tra le più ricercate poichè più rare delle altre; un'eccezione è tuttavia rappresentata dall'indaco (qui ad indicare sia la tonalità che il nome della molecola responsabile del colore) che è stato usato come pigmento già in alcuni dipinti rupestri preistorici e nel corso della storia ha ricevuto un grande riconoscimento tanto da essere considerato un simbolo di pregio dagli antichi greci e romani.

Il nome Indaco deriva dal termine greco indikon, indiano, infatti l'India è considerata il più antico centro produttore ed esportatore data la coltivazione, praticata fin dall'antichità, dell'Indigofera Tinctoria la pianta da cui veniva ottenuto in prevalenza il colorante.

Nel 1865 Adolf von Baeyer iniziò a lavorare alla caratterizzazione strutturale della molecola dell'indaco e cercò di ottenere il colorante in laboratorio riuscendoci nel 1878  con il processo sintetico riportato nella figura sottostante.

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Questo metodo poco vantaggioso è stato sostituito negli anni da processi più efficienti o economici, soprattutto a livello industriale, ma ha comunque il merito di aver portato per primo all'ottenimento del colorante attraverso una sintesi totale in laboratorio.

Già nel 1882, viste le difficoltà con il precedente metodo, Baeyer e Drewson misero a punto una via di sintesi più semplice, schematizzata di seguito, che usa o-nitrobenzaldeide come reagente di partenza; questa all'epoca non era facilmente reperibile per cui l'uso della reazione stentò a decollare, ai giorni nostri invece non lo è più e questa strada è diventata una comune sintesi a livello di laboratorio.

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I lavori sui pigmenti e sulla scoperta della struttura della molecola valsero al chimico tedesco il premio Nobel per la Chimica nel 1905.

La maggiore diffusione dell'Indaco si è avuta a partire dalla seconda metà del Novecento con l'esplosione dei blue jeans (ad esempio Levi Strauss fece uso di questo colorante per i suoi famosi jeans); da allora la molecola ed il colore blu vengono associati in maniera molto forte al famoso tessuto.

C'è però una particolarità nel processo di colorazione, infatti quello che viene applicato al tessuto in maniera diretta non è l'indaco, insolubile in acqua, ma la forma ridotta (conosciuta anche come leuco-indaco o indaco bianco) che si presenta come un composto bianco da sciogliere in acqua e far aderire al tessuto che, una volta esposto all'aria, gradualmente acquista il colore blu sfruttando l'azione dell'ossigeno che riossida la molecola ad indaco.

La tonalità blu infatti è dovuta alla coniugazione della molecola e al fatto che la struttura planare può garantire il processo di delocalizzazione che invece non si verifica nella forma bianca ridotta non planare.

Anche la procedura di ottenimento del colorante dalle foglie dell'Indigofera Tinctoria di fatto impiega una strategia analoga; queste infatti non contengono direttamente la molecola colorata ma un precursore, l'indicano. Quando queste foglie vengono raccolte e schiacciate viene liberato un enzima che catalizza l'idrolisi dell'indicano in indossile per perdita di una molecola di glucosio (anche l'acido cloridrico può essere utilizzato per favorire la reazione di idrolisi), quindi si ha la dimerizzazione con ossidazione finale da parte dell'ossigeno ad indaco, come riportato schematicamente di seguito.

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Un metodo leggermente diverso, invece, prevede di lasciare le foglie ad essiccare al sole (in questa fase si colorano di blu per la formazione dell'indaco tramite il processo descritto in precedenza), quindi queste possono essere ridotte in polvere ed utilizzate per colorare vestiti e tessuti con efficacia maggiore rispetto alle foglie verdi.

Dal momento che l'indaco non si scioglie in acqua deve prima essere ridotto così da renderlo solubile ed attaccarlo alle fibre; la riduzione anticamente veniva ottenuta con un processo naturale di fermentazione in condizioni alcaline (a tale scopo veniva utilizzata l'urina), in seguito il processo è stato reso più efficiente con l'utilizzo come riducente del ditionito di sodio (o idrosolfito di sodio). Dopo essere stato trattato il tessuto viene lasciato asciugare all'aria e l'ossigeno provvede alla riossidazione ad indaco completando il processo di tintura.

Sempre nel campo dei coloranti è interessante notare come la sola aggiunta di due atomi di bromo alla struttura dell'Indaco determini il totale cambiamento della colorazione che da blu passa a viola; il 6,6'-dibromoindaco meglio conosciuto come “Porpora di Tiro” è infatti una tinta violacea largamente ricercata nell'antichità ed associata agli abiti della nobiltà.

Questo composto veniva ricavato da alcuni molluschi marini (ad esempio quelli della specie Hexaplex trunculus o del genere Murex) che presentano alcune ghiandole in grado di secernere un muco contenente una soluzione di un precursore del colorante legato ancora una volta ad una molecola di glucosio.

Con un processo analogo concettualmente a quello dell'indaco si procedeva all'idrolisi ed alla dimerizzazione ossidativa all'aria per ottenere il colorante; le quantità che si riuscivano ad estrarre comunque erano molto piccole (basti pensare che per fare 1 grammo di colorante servivano circa 10000 – 12000 molluschi) e questo giustifica la rarità e il blasone di cui la Porpora di Tiro ha goduto nel tempo.

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La produzione ed il commercio della porpora e dei tessuti colorati con essa rappresentarono uno dei punti cardine dell'economia e dello sviluppo degli antichi Fenici poichè città portuali come Tiro o Sidone erano molto ricche di questi piccoli molluschi.
La struttura della molecola, scoperta nel 1909 da Paul Friedländer, ha permesso anche in questo caso la messa a punto di un processo sintetico e l'ottenimento del colorante su larga scala.

Tornando all'indaco, la tinta nelle regioni del Sahel della Mauritania è un simbolo di prestigio e pertanto particolarmente ricercata.

La tunica dei Tuareg, ad esempio, è tutta indaco, colore considerato nobile, mentre i mauritani, nelle zone del corpo non coperte da indumenti, si spalmano una polvere color indaco che li protegge dai raggi solari ed è all'origine del soprannome di "uomini blu" conferito alle popolazioni nomadi dell'area.

Sull'analisi dell'indaco si basano, inoltre, alcune tecniche utilizzate comunemente in campo artistico per conoscere la composizione chimica di alcuni dipinti al fine di garantirne un adeguata conservazione od un corretto restauro, oppure per dedurne la provenienza o la datazione; tali analisi infatti vengono condotte su quantità piccolissime di campione, il cui prelievo quindi non rovina il manufatto, e arrivano a misurare concentrazioni fino a 0,03 µg/mL.

Queste tecniche, ad esempio, hanno permesso la datazione del dipinto denominato “Virgin of Sorrow”, riportato a fianco, e di stimarne la realizzazione tra il 1750 e il 1830 dalla composizione dei materiali e delle impurezze contenute.

L'indigotina (o carminio d'indaco), un derivato dell'indaco, viene infine utilizzata come colorante alimentare indicato all'interno dell'Unione Europea dalla sigla E132 e negli Stati Uniti dalla sigla FD&C Blue No.2, un uso eccessivo ed a concentrazioni elevate in questo campo è stato associato alla comparsa di allergie e all'aumento della liberazione dell'istamina. Si trova anche all'interno di alcuni cosmetici.

Riferimenti e Approfondimenti

Industrial Dyes - Chemistry, Properties, Applications, Klaus Hunger, 2003, Wiley-VCH

M. Séquin-Frey, Journal of Chemical Education, 1981, 58, 4, 301

N. Torimoto, Journal of Chemical Education, 1987, 64, 4, 332

I Bottoni di Napoleone, Penny Le Couteur e Jay Burreson, 2008, TEA

J. R. McKee, M. Zanger, Journal of Chemical Education, 1991, 68, A242

M. Ortega-Avilés et al., Analytica Chimica Acta, 2005, 550, 164